La posizione di Nicola Frangione come performer è singolare: da una parte egli è uno degli autori più specifici, capaci cioè di un utilizzo proprio e lucido degli strumenti che hanno a disposizione, dall’altra parte mostra con i suoi lavori una grande ansia di superare ogni confine e demarcazione per conquistare un’arte globale. Una posizione difficile, di instabile equilibrio, che tradisce un evidente substrato di utopia, ma, proprio per questo, dotata di notevole forza propulsiva. Con Frangione la performance afferma le caratteristiche che le sono proprie, ma dimostra anche un’attitudine invincibile a superarsi, riproporsi, rimettersi ogni volta in gioco – nel presente e senza alcuna soggezione storica – come punto di convergenza di diverse problematiche e diverse modalità operative. Quello che si definisce multimedialità. Lo scopo di Frangione è molto ambizioso, ma perseguito con lucidità e assoluta coerenza. Il performer – e in generale l’artista – non è un esecutore, né un interprete; non è neppure un anticipatore (tesi, questa, cara a certa critica “epistemologica”), né uno sperimentatore di modelli comportamentali e sociali (Marcuse): è tutto questo e qualcosa di più. Il “di più” è, come si diceva sopra, la necessità dell’artista di superare le diverse specificità senza negarle, anzi assumendole a un livello di sintesi che sia a sua volta partenza per ulteriori viaggi di conoscenza. Un concetto larvatamente hegeliano, recuperato anzi reinventato fuori della sfera filosofica, in termini di diretta operatività artistica. Il problema è comprendere, nella sua complessità indivisibile, il mondo dell’uomo, nelle sue componenti fisiche e psichiche, mistiche e quotidiane, teoriche e pratiche, senza scadere della pure descrittività o nell’elencazione. Per questo progetto, semplice e al tempo stesso grandioso, Frangione attinge ai più diversi linguaggi, strumenti e materiali d’uso, spesso facendo ricorso nelle performances di reading o di action poetry, alla tecnologia video e a quella dei suoni, ma non arrestando visi, anzi utilizzandole come mezzi per asseverare, sublimare e rendere emozionante l’azione del corpo, e per raggiungere risultati rivolti all’uomo, ai suoi misteri, ai suoi bisogni, insomma alla sua umanità. E dunque le video-poesie, così come le video-installazioni e le componenti sonore delle sue performances hanno la peculiarità di porsi al di fuori di se stesse e al tempo stesso di confermare la loro natura di «materiale d’artista, manipolato e trasformato al pari di tutti gli altri…, dal monitor alla pittura, alla scultura, al tape, dal ready-made all’architettura.» Il termine di riferimento di tutte le operazioni di Frangione è il poeta, recuperato a quel ruolo di centralità che gli è stato proprio, e rilanciato in una funzione catalitica, di creatività intensa, da cui promanano ogni valore progressivo ed ogni soluzione formale, opera, gesto, azione, video. Il poeta compie, come suo primo atto imprescindibile, un lungo e ostinato viaggio dentro di sé, nel mondo delle proprie interne pulsioni e dei propri meccanismi logici, un viaggio conoscitivo che utilizza parimenti l’intuizione e la riflessione; in un secondo tempo (non tanto cronologico quanto logico) produce i risultati fuori di sé, prima esprimendoli così come li ha acquisiti ed elaborati poi comunicandoli agli altri. Conoscenza, espressione e comunicazione sono i termini irrinunciabili di un percorso in cui il corpo finisce per porsi come organo esatto e appropriato di mediazione, strumento efficacissimo e coinvolgente di comunicazione, che da solo sarebbe sufficiente a stabilire i rapporti, ma non disdegna contributi esterni, mezzi fisici e apparati tecnologici capaci di rendere più netto, struggente o affascinante il gesto e l’azione. In effetti Frangione non sottrae alla sua opera i valori della teatralità, o, come egli preferisce dire, della drammaturgia artistica. Nel rapporto che viene lucidamente importato tra performance e pièce teatrale si costituisce un confine, una zona di passaggio nella quale l’azione performativa dell’artista visivo supera in qualche modo il livello del primo termine, ma non consegue ancora, definitivamente, quello del secondo: in questa terra di nessuno l’attività poetica può esprimersi senza assilli classificatori, può caricarsi delle più diverse valenze e divenire effettivamente un evento “altro”, un evento, per così dire, transcenico. Come dice Frangione stesso, «in questo limbo possono concretarsi i contributi differenziati del teatro, della performance, dell’arte visiva e delle pratiche intermediali, e può essere conseguito il superamento del non teatro per una globalità dell’arte.» È un concetto arduo, con ampie zone d’ombra o almeno di non chiara definizione, intorno al quale v’è ancora molto da lavorare. Non è detto che soluzioni valide provengano soltanto dalla lunga riflessione e dalla passione di Nicola Frangione; ma è certo che questa sua intuizione e la sua utopia siano, oggi, gli starters adeguati per l’individuazione e l’affermazione di un’arte libera e unitaria, e soprattutto propriamente “umana”.
Livorno, ottobre 1992 – ottobre 2010
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