Quando nel 1999 pubblicava il Cd “Rapporti orali e trasversalità sonore” (Harta Performing, Monza 1999) Nicola Frangione lanciava, attraverso le componenti acustiche delle sue performance, il segno inequivocabile della sua vocazione alla pratica dell’azione totalizzante, dell’azione che non conosce confini precostituiti, né sul piano linguistico, né su quello disciplinare, tantomeno su quello del genere. Il titolo dichiarava immediatamente la valenza trasversale delle sonorità proposte e la loro natura di “rapporto orale”: un chiaro messaggio rivolto all’ascoltatore per sottolineare che quelle composizioni potevano essere considerate relazioni orali di accadimenti “altri”, molto più complessi in quanto realizzati in dimensioni spazio-temporali, dove la voce e il suono costituiscono soltanto alcune delle componenti dell’opera, articolata, invece, anche sul piano dell’immagine, del corpo, del gesto, ecc. Del resto basta sfogliare le pagine del booklet allegato a quel Cd per rendersene immediatamente conto. A fronte dei testi, infatti, sono riportati schemi grafici di esecuzione, partiture, talvolta pseudopartiture con chiare intenzioni ironiche, che rimandano ad azioni, gesti, indicazioni sull’organizzazione di spazi e architetture, sull’utilizzazione degli impianti e perfino sulla disposizione del pubblico e sulle modalità di fruizione delle performance. In alcuni casi l’autore traccia vere e proprie planimetrie con indicazione delle linee di percorso, come in “Incorporalità” (1999) o in “Ittoosang” (1990), dove s’inseriscono perfino suggerimenti sull’abbigliamento. Ma questi schemi, fitti di appunti verbali e numerici, di notazioni musicali e di geometrie funzionali, che in alcuni casi servono all’autore per ripensamenti e riorganizzazioni di materiali preesistenti, hanno anche una chiara valenza figurale, ritagliandosi una decisa autonomia sul piano visivo. La raccolta di “poesie sonore” rimanderebbe, così, ad azioni anteriori responsabili di eventi pluridisciplinari e interdisciplinari e, nello stesso tempo, a successive messe in atto. In effetti Frangione è essenzialmente un performer che combina oggetti e in-forma voci, parole, suoni, colori, immagini in quadri ritmici che sono frutto di azioni ordinatrici. E con riferimento all’etimo di “azione” (in greco drâma, -atos) l’artista diventa un suscitatore di eventi drammatici proprio attraverso l’uso del suo gesto organizzatore che si esplica nei territori di confine tra le arti. Nicola Frangione nelle sue dichiarazioni (si veda a tal proposito il fascicolo di “Harta Performing” n° 3-29, Monza 1997, intitolato “Interazioni e drammaturgia delle arti”) parla di «sinergia interdisciplinare» e di «agire artistico come drammaturgia totale», ma anche di «poesia totale e teatrale che ha indirizzato la sua ricerca unendo in sinergie le sue varie esperienze» o ancora di «senso drammaturgico del fare artistico». Egli scrive che la performance «esprime sempre un carattere originario che è riconducibile al dramma ma senza essere teatro», che essa si realizza prima «nella coscienza di esistere e dopo, come sintesi, viene “messa in campo”», che «lo spazio d’azione viene modificato da una originalità interiore e la performance diventa un parto, una nascita, un avvenimento esistenziale di “messa al mondo”, perché su tutto ciò che è avvenuto nella performance ci riconosciamo antropologicamente vivi nel senso». Ma, battendo territori di confine, Frangione, proprio attraverso la pratica della contaminazione, finisce talvolta per tendere alla confusione tra arte e vita, così com’è avvenuto nella “tradizione” dell’avanguardia, dal futurismo a “fluxus”, passando per dada e finendo per naufragare sulle spiagge dell’isola di Utopia. Non per niente Frangione riserva all’artista il compito dell’“azione ribelle” a cui può corrispondere una “reazione come arte della vita”. In questo senso l’opera d’arte si porrebbe contemporaneamente come punto di partenza e punto di arrivo, come input e come provocazione, ma anche come output e come risposta. La performance è allora azione condivisa sul piano etico e l’opera d’arte ne costituisce il frutto, il risultato al di là e al di qua del mondo degli oggetti. D’altra parte l’artista parla di performance come pensiero-azione e si spinge ancora oltre, quando, con riferimento alle chiavi drammaturgiche, fa addirittura coincidere l’opera con l’autore, che assume il ruolo di polo di sinergie interdisciplinari. Insomma: l’opera d’arte è pensiero-azione e luogo del pensiero-azione, dove «l’agire artistico come “drammaturgia totale” è il modo in cui si esprime la virtuosa caratteristica esistenziale dell’individuo». La performance potrà contenere il sé e il fuori di sé e si organizzerà sull’asse portante di un’utopia che si concretizza nell’azione del performer che è “viaggiatore di un mondo prima interiore e dopo esteriore”. A tal proposito è bene osservare che la raccolta di rapporti orali e di trasversalità sonore che abbiamo preso in considerazione si apre con una “Introduzione nomade” dove il poeta bisbiglia sul fondo sonoro di un temporale un testo che presenta slabbrature e ricuciture con un’incongrua sintassi, ma che nella sua forma sonora (dove le pause sono colmate dai tuoni che assumono un vero e proprio ruolo sintattico) si presenta perfettamente coerente. La voce sussurrata lascia emergere temi legati, appunto, al concetto di nomadismo: «poesia nomade di giorno in giorno…», «quotidianità geografica dello spostamento…», «la poesia fantastica e corporale dei viaggiatori che tracciano performance durante le soste…», «come una sosta il contenuto della poetica…», «cittadino d’utopia il poeta non abita più che i luoghi di transito e resta legato al centro del suo ambiente…». A questi brandelli si fronteggia, nella versione a stampa del booklet, una pseudopartitura (datata 1981) ricavata da un modello doganale da applicare su pacchi postali (dove tra l’altro si legge «verso una definizione della poesia totale, verticalità e desiderio tattile della percorribilità nomade») che rimanda ai tempi eroici della mail art, quando l’intreccio delle comunicazioni sostenute dalla rete postale nutriva un clima particolarmente fecondo e dove le tensioni creative alimentavano il leitmotiv dell’opposizione al mercato dell’arte, in favore di pratiche alternative e nomadi, soprattutto libere e sganciate dalle logiche talora aberranti e perverse dei domini ufficiali e istituzionali. E Frangione è stato uno dei più assidui frequentatori di quel circuito; in varie occasioni lo ha fiancheggiato organizzando mostre e proponendo progetti, tra i quali va ricordato per la sua originalità almeno “Mail Music” (1983), un LP 33 giri che raccoglieva senza soluzione di continuità un flusso di messaggi sonori provenienti da ogni parte del mondo. Questo tema del nomadismo, a mio parere particolarmente interessante per gli sviluppi dei quadri artistici internazionali in questo momento di crisi e di ripensamenti generalizzati, discende nella poetica di Frangione dalle forti valenze che egli assegna al ruolo del corpo, che sono esaltate dalle critiche rivolte dall’artista al sistema mediatico e all’uso talora sconsiderato delle nuove tecnologie. Egli si pone di fronte alle arti multimediali con atteggiamento critico quando quello che ama definire “stupefacente apparire” delle tecnologie determina il completo oscuramento di valori e di idee. Il rapporto con l’elettronica deve essere rigoroso. Frangione non cede alla gratuità dell’effettistica e nello stesso tempo non cade nella trappola della maschera tecnologica, evitando accuratamente orpelli digitali e ogni inutile sovrapposizione su strutture che già mostrano una loro autonoma e spiccata fisionomia. Purtroppo siamo abituati ad osservare altrove l’applicazione indiscriminata delle nuove tecnologie solo per ossequiare moda e mercato: si ritiene, ancora troppo spesso, che progetti concepiti secondo criteri assolutamente inadeguati possano essere messi al passo con i tempi tramite la pura e semplice adozione dell’espediente tecnologico, senza alcun rinnovamento linguistico di base. Osserva giustamente Frangione che in questi ultimi trenta anni il terreno della ricerca critico-operativa è stato particolarmente caratterizzato dalla multimedialità, ha maturato nuove opportunità tecnologiche, «ma non ha superato quegli sperimentalismi chiusi negli ambiti dello ‘stupefacente apparire’, anzi, in molti casi ha determinato una omologazione tecnica tra varie forme artistiche», con il risultato di confondere «conoscenza tecnico-realizzativa e conoscenza artistico-ideativa», ponendole sullo stesso piano estetico. Con la tecnologia aumentano le possibilità decisionali che l’artista ha a disposizione, ma lo “stupefacente apparire” riemerge pericolosamente, quando, in assenza di attenzione critica, alimenta le applicazioni morbose dell’elettronica da cui possono facilmente scaturire i più vari campionari di ideologie fasulle. Un altro dei problemi di Frangione è quello di sfuggire al pericolo dei vortici multimediali quando il valore delle informazioni è scambiato con la velocità della loro trasmissione. Frangione si sforza di rientrare entro i limiti di una scansione temporale modellata dal gesto, dal movimento, dal procedere “naturale” dell’uomo nell’avventura dell’arte, sempre con un occhio rivolto al contesto e un orecchio teso verso le voci della memoria, perché è proprio da questa che si potranno attingere valori sempre validi e riconoscibili. La realtà non è quella intessuta nella velocità dei dati che sfrecciano a milioni di milioni nell’infosfera, ma è quella che si apprezza nel valore della struttura complessiva dei poli trasmittenti e riceventi. Il valore, infatti, sta tutto nella capacità di trasformazione dei messaggi in nuove realtà, in dati imprevedibili. In questo senso, sia pure a fronte delle strategie tecnologiche che impegnano i nostri anni e dei risultati del necessario confronto con l’evoluzione dell’universo elettronico, ho più volte sottolineato l’importanza del valore sul piano tecnico, linguistico ed estetico di alcuni elementi fondamentali, appartenenti (sia pure con prospettive differenti) alla “tradizione” performativa, sui quali è indispensabile riflettere nella realizzazione di nuovi progetti. Si tratta di elementi che possiamo ritrovare integralmente anche nell’opera di Frangione: la presenza (intesa come fattore polisensoriale e cardine spazio-temporale), l’evento (inteso come momento interattivo irripetibile), l’intermedialità (intesa come intersezione di territori mediatici, di codici e di linguaggi), la tensione performativa (intesa come carica potenziale da impegnare nella performance, dove il corpo vive il suo rapporto con lo spazio, il tempo, gli oggetti, le protesi strumentali). Avevo, infatti, già sottolineato nel mio “La voce in movimento”[1] che l'esperienza di Nicola Frangione è orientata verso una particolare “sinergia interdisciplinare”, dove l'attenzione al corpo come elemento espressivo fondamentale segna in maniera indelebile il lavoro artistico. Nelle sue performance il corpo “smette di rendersi utile”: esso è; agisce di per sé; costituisce una presenza fondamentale che ha un rapporto di tipo rituale con lo spazio che lo circonda, dove gli oggetti sottolineano le valenze corporee con connotazioni simboliche. Quel corpo in movimento crea riferimenti con la realtà, ma li nega immediatamente quando il trattamento “teatrale” trasforma gli oggetti in simulacri di uno spazio che si fa anch’esso oggetto con valore di “scena”. È un po’ quello che accade nei lavori visuali e/o verbo-visuali di Nicola Frangione, a cavallo tra “poesia visiva” e “poesia simbiotica”, con valenze plastiche che talvolta possono essere riferite ad atmosfere pop e neo-dada, specialmente quando egli pratica decontestualizzazioni e concentra l’attenzione sui più disparati “objets-trouvés”. Ma non è facile collocare l’opera verbo-visiva di Frangione al di fuori del suo lavoro di performer. Il criterio è quello di combinare forme e colori, parole e oggetti in una sorta di teatro ottico-sintetico. Le tavole dichiarano formalmente una gestualità rituale a monte, che determina lo spostamento del senso, che fa slittare gli elementi da una realtà ad una realtà “altra”, da una dimensione corrente fino a quella propria del “théatron”: teatro di ironie, ma anche di significanze sfuggenti per precisa scelta ideologica: quasi sfondo per azioni performative che sopperiscono alla perdita di realtà (e di scansioni temporali) con ri-costruzioni fuori dalla ridda mediatica, dove è recuperato l’equilibrio e la compostezza della “tabula” per gli occhi. Tuttavia quelle tavole chiedono di essere attraversate; sembra addirittura che presuppongano quel transito che ne deve completare il ruolo spettacolare; l’osservatore può quasi figurarsi la mano che raccoglie oggetti sul suo percorso e che ri-compone i materiali nello spazio. Quella manualità potrà, anch’essa, essere collocata nell’ambito della gestualità performativa, gestualità che fa da ponte tra realtà e opera d’arte e che costituisce quel drâma che si pone come principio “poietico”, ma che, nello stesso tempo, fa sì che si renda evidente il concetto secondo il quale ciò che è escluso dall’opera fa parte dell’opera stessa. Si ha così un teatro che respira silenzio ed echi cristallizzati, ma che trasmette vibrazioni che rimandano alle azioni a monte e a quelle che potrebbero essere vissute a posteriori, qualora la “tabula” incarni funzione scenografica. È come quando, in alcune delle performance di Frangione, senza né suoni né parole, il muto rituale dell'ostensione del corpo si fa materia pulsante, perché, nel suo silenzio, quel corpo diviene presenza vibrante, vertigine sensoriale, nodo inestricabile di misteriose tensioni. In quel silenzio il corpo può rivelare talvolta quelle voci che animano gli abissi delle infinitudini interiori, di cui, proprio a proposito dell’opera sonora di Nicola Frangione ho già avuto modo di parlare. Si tratta di voci che premono negli alveoli e percorrono gli interstizi risalendo lungo fasci di nervi, affiorando, scabre, da quelle insondabili cavità, dove il flatus si stringe all'anima e con essa si confonde. Si osserva allora una doppia matrice vocale nei lavori dell’artista: si ha una vocalità che si manifesta da protagonista nella dimensione acustica che lega testo e musica secondo modalità intermediali ben consolidate, ma si ha anche una vocalità interna, più intima e profonda, che si esplica solo come frutto delle tensioni interne del corpo in performance e che si pone alla stessa stregua degli altri elementi linguistici, sbilanciandosi, forse, più verso la dimensione dell’evento teatrale che verso quella della “poesia sonora” . Nelle tavole di Frangione, ovviamente, un ruolo importante è svolto anche dalle parole, che sembrano sempre preludere alla performance e che si pongono come cerniere dei differenti piani di lettura dell’opera: poesia-oggetto, ready made, théatron in nuce, preludi di action art. Si tratta di parole-evento che ri-collegano frammenti di realtà a nuove realtà, ma anche di parole-progetto che recano i segni del corpo, del suono, della voce e che potranno estendere in chiave spettacolare valenze interattive al contesto considerato, cooptando quei riferimenti extratestuali che possono costituire gli antecedenti e le conseguenze della tavola verbo-visiva stessa, come appare specialmente in quei poemi-partitura che, per loro stessa definizione, alludono all’azione. Insomma la sinergia interdisciplinare e il continuo riferimento al pensiero-azione fanno sì che la performance si ponga come comune denominatore di tutta l’opera di Nicola Frangione, sia essa rappresentata da tavole visive, da libri-oggetto, da partiture, da poemi sonori, da radio art, da videografie, da installazioni, da azioni creative diverse, ecc. Ed essa è caratterizzata da una poetica che si distingue per l’adozione di connessioni operate sia sul piano etico, sia estetico: si fa leva sul rapporto tra concetti e pulsioni, memoria e azione, stabilità del progetto e mobilità delle sue realizzazioni, ritualità e gesto dissacratorio, arte e vita, autore e opera. L’interattività dell’evento è sottolineata ogni volta dalle caratteristiche dello spazio (vuoi geometrico, vuoi acustico, vuoi intermediato), che rappresenta sempre la scena dello scontro percettivo e dello stupore sinestetico; l’intermedialità è caratterizzata dalla regolazione sapiente del balance interlinguistico; mentre la tensione performativa si innesca principalmente in chiave ritmica: il tempo segna la durata delle tensioni, dell’interrogazione, e determina il completo svuotamento dei ritmi quotidiani in favore di espansioni che finiscono per coincidere con i labirinti della memoria, al di fuori di qualunque dimensione storica, ma in una sorta di psicodramma. E qui la parola o è compressa nel corpo ed agisce al suo interno spegnendosi sulle sue labbra (il corpo non se ne separa, quasi fosse la sua anima, e punta sul coinvolgimento di tutti i sensi in una dimensione pre-linguistica) o si affaccia alla ribalta performativa sostenuta da testi talora sgangherati, come ne “L’intervista” (1984-99), talora giocati sui registri bassi dei dialetti, talaltra fondati sul sound di altre lingue, come in “Giallo notturno” (1985-99), oppure sul crinale del nonsense, come in “Incorporalità” (1999) o sul gioco di parole, come in “Pin-occhio al ticket” (1998-99), o sull’uso di tessiture eminentemente “orali” come in “Vocecevovoce”. A partire da questa composizione del 1980, Nicola Frangione mette in cantiere lavori che si fondano sull'uso del testo e della musica in chiave sinergica, nel senso che tali elementi non sono semplicemente giustapposti in un’ottica di mera “spettacolarità”, ma sono costruiti con reciproco sostegno al fine di “rivelare” la voce, di manifestarla “poieticamente”, di manifestarne la sonorità in tutta la sua pregnanza. Non si tratta quindi di letture drammatiche con sottofondo musicale, dove la musica sottolinea la recitazione dell'attore e l'attore interpreta il testo; ma di “poesia del suono”, di un evento sonoro come oggetto artistico, dove testo, voce, musica sono in stretta fusione, dove il suono corrisponde alla dimensione aurale del testo e non si pone come commento ad esso, né interviene come orpello; insomma: le valenze sonore sono stabilite da un testo che le anticipa “in nuce” e che ricerca il completamento delle proprie forme in una vocalità che possa condurlo dinamicamente fuori dai confini della pagina, in un gioco di mutue valorizzazioni e dilatazioni del senso che, con la stessa insistenza delle onde che s’infrangono l’una dopo l’altra sulla battigia, andranno ad impattare gli organi di senso di un pubblico che attende di “sentire” sinesteticamente. Una progetto come quello di Frangione non può tendere alla omeostaticità e all’indipendenza degli elementi: ecco perché, con coerenza intermediale, anche il concetto di testo non può più essere legato ai modelli finora adottati. Il testo non può più considerarsi indipendente, non può più far fondamento esclusivo sulle sue regole interne: il testo è fortemente dinamico, aperto alle trasformazioni, al di qua e al di là delle discipline e del genere stesso. Non più costruzioni chiuse e simmetriche, ma strutture aperte, polifunzionali, interdipendenti: figure in continua trasformazione, senza valori gerarchici. L’arte intesa come processo, infatti, segnerà la successione degli eventi e si materializzerà in pause da considerare come coaguli nella dinamica della trasformazione, mentre infinite polluzioni potranno porsi come generatrici di nuove strutture. Quindi unità e varietà nello stesso tempo: unità del processo e varietà delle figure che si rapprendono in specifici momenti spazio-temporali. In questo senso ogni oggetto, ogni azione prodotta ha una storia e si pone come “prova” del processo, come stadio del movimento; mentre nella trasformazione del testo interlinguistico si concretizza la produzione di nuovi sensi. E immettendo il testo nel processo di trasformazione, non solo si acquisiscono imprevedibili incrementi di senso, ma si rivelano dimensioni linguistiche nuove, dove suoni e rumori, intessuti nell’ordito verbale (secondo la logica sinergica di Frangione e in base a sintassi prettamente acustiche) offrono testi che, al di là delle correnti accezioni, superano la dimensione letteraria per porsi in quella dell’azione totalizzante. È in questa chiave che Frangione sposa la poetica del testo integrato, di quello che nelle mie elaborazioni teoriche ho voluto indicare come politesto in risonanza, come ipertesto sonoro multipoietico, come ultratesto trasversale basato su una nuova lingua poetica che scavalca i margini assegnati dalle regole della scrittura e che, nel suo sconfinare, tende a fregiarsi del contrassegno della totalità, con tensione al rinnovamento, ma senza tradirne le valenze consolidate. Nel lavoro sonoro di Nicola Frangione, quindi, si registra un ampliamento ed uno sfondamento dello specifico tecnico; si va oltre il limite della produzione artistica di settore; non c'è né "musica", né "teatro", né pura vocalità; ma nello stesso tempo è possibile ritrovare tutto questo in una "parola totale" che sa raccontarsi, ma che sa anche farsi guardare, divenendo architettura, costruzione visiva, e poi suono ed eco figurativa di una tensione poetica che utilizza i materiali di molte tradizioni specifiche per poter viaggiare meglio verso orizzonti totalizzanti. Questi elementi caratterizzano, oggi, pratiche artistiche appoggiate ad una rete, non necessariamente o non solo elettronica, fondata sulle relazioni tra centri di elaborazione estetica diffusi un po’ in tutto il mondo, che giustificano la loro sopravvivenza sui valori “politici” del rapporto umano. Tolleranza, convivialità, fratellanza, libertà di comunicazione, al di fuori dei vincoli del business dell’arte, sono valori condivisi da schiere di “artisti nomadi” di ogni parte del mondo. Un’ampia e significativa frangia di operatori, infatti, insiste da anni sul concetto di nomadismo, concetto che meriterebbe una maggiore attenzione critica e “politica”. Richard Martel, nel 1986, mutuando tensioni già in atto fin dagli anni '60 e '70, propose a Québec un articolato festival di performance, proprio per sottolineare le novità di questo atteggiamento e per offrire un’occasione di riflessione teorica. La manifestazione, denominata "Espèces nomades", evidenziava l'importanza delle pratiche artistiche dominate non solo dalla fusione dei linguaggi e delle tecniche, ma anche da dimensioni esistenziali e modi di vita. Ho più volte ricordato che in quell'occasione la danese Marianne Bech[2] evidenziava le analogie tra i trovatori medioevali, poeti nomadi che diffondevano la loro cultura attraverso poesia, musica e vocalità, e i performer contemporanei, che fondano la loro ricerca su un mélange tecnologico e linguistico che testimonia la ricchezza e l’ampiezza del concetto di performance. Ma questo artista non è nomade soltanto in senso metaforico: egli, infatti, da una parte attraversa i linguaggi, dall’altra si relaziona e si sposta nel mondo alla scoperta di altre realtà culturali, trascinandosi dietro bagaglio tecnico e universo linguistico. L’arte nomade, insomma, fa riferimento al corpo e a tutti i suoi prolungamenti, alle sue estensioni, alle sue protesi; ma anche ai tessuti di relazione che riesce a connettere, annotando ogni passaggio e registrando ogni mutazione, facendo leva anche su quelle componenti topologiche che finiscono per determinare ciò che Roger Chamberland, con efficace gioco di parole, riferendosi all'unità perfetta e alla sostanza attiva, volle definire “espaces monades”.[3] In realtà questi “espaces monades” costituiscono le molecole di una materia pulsante alimentata da “espèces nomades”: espèces che garantiscono la tenuta energetica: tenuta energetica che pervade i continui spostamenti molecolari di un universo che è anche mondo e specchio del mondo. In quest'ottica, lo scambio internazionale è alla base del fondamento culturale, artistico ed esistenziale. Del resto l'impegno degli “artisti nomadi” è quello di approntare strategie che collochino i principi del pluralismo e della tolleranza e i temi dell'uomo e del suo destino tecnologico in uno spazio critico che si opponga fermamente ad un'informazione (e non solo a quella) asservita agli interessi di quei gruppi di potere per i quali la logica dell'immediato profitto è al di sopra di qualsiasi altro valore. Contro questa logica, la tensione creativa degli “ambassadeurs” designati da Julien Blaine,[4] nomades & monades nel/del mondo, può ancora svolgere un ruolo fondamentale, sia attraverso lo scambio diretto, vivo e contaminante, sia con il supporto delle nuove tecnologie. Un lavoro immane! Si inscrivono perfettamente in questo quadro le poetiche dello scambio, da una parte, e della flessibilità e duttilità del disegno poetico, dall'altra; e oltre l'interattività mediatica, si assiste anche alla contemporanea crescita del lavoro collettivo e interattivo diretto e reale. Manifestazioni, animate da questo spirito sono oggi numerosissime.[5] Da più di qualche anno, come reazione alla melassa postmoderna, il fenomeno si affaccia in tutto il mondo[6] e utilizza rapporti variegati con le odierne tecnologie, facendo salvo, però, il valore della “presenza” dell'artista e ricercando, come accennato, nuovi rapporti con le forme del testo, nell'intenzione di realizzare disegni poietici fortemente antagonisti. Nicola Frangione, con il suo repertorio di voci, colori e suoni ed il suo corpo smilzo pronto a sobbalzare, ha sempre la valigia pronta per poter spiccare subito il volo verso i più disparati lidi, geografici e non, ma senza mai trascurare il suo orto di artista a Monza, dove il festival “Art Action”, ormai in piedi da più di qualche anno, si profila come una delle più interessanti e stimolanti occasioni del futuro dibattito culturale.
[1] Ed. Harta Performing & Momo, Monza 2003. [2] M. BECH, Footnotes, in “Inter” n° 37, Québec 1987. [3] R. CHAMBERLAND, Espèces nomades, in “Inter” n° 37, Québec 1987. [4] Nel 1997 Julien Blaine ha organizzato a Ventabren (Francia) un’esposizione dal titolo “Les ambassadeurs au V.A.C.”, con opere di artisti definiti “nomades, nomades absolument” [catalogo]. [5] Un’ampia panoramica delle più recenti manifestazioni è riportata in G. FONTANA, “La voce in movimento” [cit.]. [6] Nel 2001 è stata costituita l’IAPAO, un’associazione internazionale tra organizzatori di eventi performativi. Gli associati sono collegati in rete.
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